Negli attuali fondali della diga di Montedoglio (nella foto una veduta dal satellite), al confine tra i comuni di Pieve Santo Stefano e Sansepolcro, in provincia di Arezzo, sorgeva un tempo un’intera frazione. Si trattava dell’antico borgo di Madonnuccia, sorto lungo il tracciato della Via Tiberina, alla confluenza del Tevere con il torrente Tignana. Nel 1980 gli abitanti furono trasferiti nelle abitazioni di edilizia popolare della «Nuova Madonnuccia», sulla collina poco distante, in località Poggiolino. L’intera vallata fu, infatti, invasa dalle acque di una delle dighe in terra battuta più grandi d’Europa. Da quella collina i residenti della vecchia Madonnuccia hanno visto lentamente scomparire i ricordi di una vita. Abitazioni, campi, case coloniche, chiese e anche una parte dell’antico tracciato della strada tiberina. Niente è stato abbattuto, nemmeno gli alberi. Tutto è stato sommerso dall’acqua, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Ora che la diga di Montedoglio ha raggiunto la portata di oltre 130 milioni di metri cubi, la Valtiberina inizia a domandarsi se tutto questo non sia stato un errore. Ad accendere la discussione l’incidente della notte fra il 29 e il 30 dicembre, quando ben 30 metri di un muro laterale della diga, due pannelli prefabbricati in cemento armato, vicino al canale scolmatore, hanno ceduto di netto. Improvvisamente oltre 600 metri cubi di acqua al secondo si sono riversati a valle, facendo scattare l’emergenza, con l’evacuazione di oltre 400 persone, allagando campi, qualche abitazione e numerose aziende agricole. Il crollo è avvenuto durante un test, quando la pressione del bacino era al massimo livello.
I sindaci della zona hanno però denunciato di non essere stati avvisati del collaudo. «La diga di Montedoglio – spiega Diego Zurli, direttore dell’ente irriguo umbro-toscano che gestisce l’invaso – è costantemente sottoposta a test. Non possiamo allertare i comuni in ogni occasione».
Nel frattempo la procura di Arezzo ha aperto un fascicolo per fare chiarezza sulla vicenda. L’accusa è di disastro colposo, per ora a carico di ignoti. Sono stati acquisiti tutti i documenti relativi alla progettazione della diga, oltre alle testimonianze fotografiche dell’incidente. «Era un atto dovuto – spiega Zurli –. Per conto nostro abbiamo già avviato un’inchiesta interna all’ente sull’accaduto. I motivi del crollo sono tutti da chiarire anche per noi. Alcune strutture di calcestruzzo hanno ceduto pur non essendo sottoposte a sollecitazioni idrauliche particolarmente rilevanti. Non ce lo aspettavamo e ora, passata l’emergenza, è del tutto evidente che dovremmo capire perché è successo. In ogni caso non ci sono rischi legati alla tenuta della diga».
Chi sostiene esattamente il contrario è Marco Bani, speleologo originario di Città di Castello. «Ho rabbrividito – spiega Bani – quando ho visto la falla. Sono stati messi in piedi dei pannelli alti una decina di metri, non rilegati l’uno con l’altro». Per Bani il rischio maggiore è legato al fatto che Montedoglio si trova sopra ad una faglia. «È uno scandalo che sia stata fatta costruire una diga in terra battuta, alta 64 metri , contenente 150 milioni di metri cubi di acqua, in una zona soggetta a terremoti come la Valtiberina. Se al cedimento della notte tra il 29 e il 30 dicembre si fosse aggiunta una scossa tellurica, anche di lieve entità, sarebbero potuti crollare più di due pannelli in cemento armato e sarebbe stato un disastro». L’idea di realizzare questa diga nasce negli anni sessanta come risultato di una serie di studi effettuati da esperti dell’ente autonomo per la bonifica, l’irrigazione e la valorizzazione fondiaria nelle provincie di Arezzo, Perugia, Siena e Terni, che dal 1991 è denominato «ente irriguo umbro-toscano».
La realizzazione dell’invaso di Montedoglio è stata prevista dal «piano irriguo per l’Italia centrale». A portare a termine i lavori la Lodigiani Spa , oggi Impregilo, che ha costruito dighe artificiali in tutto il mondo, tra cui quella di El Cajon in Honduras e Xiaolangdi in Cina. La Impregilo è stata coinvolta anche nelle polemiche legate al crollo nell’ospedale di L’Aquila, in occasione del sisma del 2009. Ora sarà la Procura della Repubblica a valutare se ci siano state o meno inadempienza nella realizzazione e nella manutenzione della diga di Montedoglio. Di certo, come ha spiegato nelle ore dell’emergenza il sindaco di Sansepolcro, Franco Polcri, «dopo quanto accaduto il sentimento dei cittadini nei confronti del grande lago artificiale è cambiato».
La scheda
La storia delle motivazioni per la costruzione di dighe e invasi in Toscana, come anche in Italia, è la seguente: anni ’20,’30 e ’40 idroelettrico; anni ’50 e ’60 irriguo; anni ’80 e ’90 regimazione e potabile. Le grandi dighe italiane, di competenza statale, sono attualmente 541. Di queste una cinquantina si trovano in Toscana. Diverse sono le tipologie costruttive delle dighe, adottate secondo le caratteristiche morfologiche, geologiche e geotecniche dell’area di imposta dello sbarramento. Ci sono dighe murarie (a gravità, ad arco, ad arco/gravità, a cupola, a volte o solette sostenute da contrafforti), dighe di materiali sciolti (per esempio terra come quella di Montedoglio), sbarramenti di tipo vario, traverse fluviali.
Iniziamo dalla diga di Montedoglio. L’invaso artificiale, realizzato tra il 1978 e il 1993, si sviluppa dalla stretta di Montedoglio per una lunghezza di 7,5 km , estendendosi anche nelle valli del Singerna e del Tignana per 3km, coprendo una superficie di oltre 800 ettari . È caratterizzato da due sbarramenti: il principale interrompe il fiume Tevere, l’altro sorge in località San Pietro in Villa, nel territorio del comune di Sansepolcro, a livello di qualche metro inferiore rispetto all’altro sbarramento.
Altre due dighe toscana – e la loro regolamentazione in momento di piena – hanno fatto discutere durante le piogge eccezionali e le esondazioni del Natale 2009. Sono quelle di Rocchetta e Giaredo in comune di Pontremoli (Massa Carrara) entrambe gestite da Edison per la produzione di energia elettrica. La prima, soprattutto, è una diga alta 76 metri con una portata di 5 milioni di metri cubi.
Un’altra grande diga toscana come volume d’invaso è quella sul lago di Bilancino (Comune di Borgo San Lorenzo - Firenze). Lo sbarramento del fiume Sieve crea un serbatoio artificiale della capacità massima di 84 milioni di metri cubi ed in grado di garantire (grazie ad un rilascio controllato in alveo che va ad immettersi in Arno a monte di Firenze) una portata costante minima di 600 l/s, una portata variabile tale da integrare ad almeno 8 mc/s i deflussi di magra dell’Arno nel periodo estivo, l’attingimento di circa 1 mc/s per le utenze della valle del fiume Sieve. I lavori per la costruzione della diga di Bilancino sono iniziati nel 1984 e, dopo varie traversie e rinvii, si sono conclusi nel 1995.
C’è poi il lago di Vagli (nel comune di Careggine - Lucca) formato da una diga alta ben 96 metri costruita tra il 1947 ed il 1953 che sbarra le acque del fiume Edron. È certamente uno dei laghi più celebri d’Italia in quanto nelle sue profondità custodisce le rovine del «Paese Sommerso» di Fabbriche di Careggine noto anche come «Paese Fantasma» che riappare solo quando il bacino viene svuotato per le manutenzioni.
Le regioni chiedono un comitato di salvaguardia
Una richiesta al Governo di predisporre un intervento urgente per ripristinare la diga di Montedoglio dopo i danni subiti, è stata avanzata al termine del vertice tra le Regioni Umbria e Toscana che si è tenuto lunedì scorso a Perugia. Gli interventi – è emerso dall’incontro – devono essere realizzarti in tempi rapidissimi in quanto c’ è la duplice necessità di garantire la massima sicurezza l’invaso, e determinare al tempo stesso le condizioni per riportare a regime la disponibilità della risorsa idrica. Il vertice è stato convocato e presieduto dalla presidente della Regione Umbria Catiuscia Marini. Vi hanno preso parte gli assessori regionali della Toscana, Gianni Salvadori e Anna Rita Bramerini, e dell’Umbria, Fernanda Cecchini e Silvano Rometti, presente anche il direttore dell’Ente irriguo Umbro Toscano, Diego Zurli. È stato il direttore Zurli – ha riferito la Regione Umbria in un comunicato – a svolgere una ampia comunicazione sia sull’incidente, che sullo stato attuale dell’invaso, degli interventi da svolgere e della futura gestione della risorsa idrica attualmente disponibile, che è pari ad oltre 80 milioni di metri cubi, più della metà della capacità della diga. Una lettera congiunta delle due Regioni sarà inviata ai ministri dell’agricoltura e delle infrastrutture, Giancarlo Galan e Altero Matteoli, al fine di avere risposte certe in vista dell’incontro del prossimo 18 gennaio, che era già stata fissato in precedenza tra le Regioni ed i due discasteri per discutere del nuovo assetto istituzionale dell’Ente irriguo.Nel corso dell’incontro è stato ribadito come attualmente sia del tutto rientrata l’emergenza e che la diga è nell’ambito della vigilanza ordinaria. Inoltre è stato sottolineato come, subito dopo l’incidente del 29 dicembre, tutto il sistema di protezione civile si sia attivato nei tempi stabiliti «dimostrando un alto grado di efficienza».Per ciò che riguarda la gestione della risorsa idrica disponibile è stato affermato che nella fase transitoria, pur in presenza dei lavori che dovranno essere compiuti, non vi saranno problemi per tutto l’anno in corso sia per l’utilizzo dell’acqua per scopi idropotabili che irrigui. Preoccupazioni sono invece state manifestate se dovessero allungarsi i tempi di realizzazione dei lavori di riparazione. In una situazione di incertezza e di protrarsi dei tempi sarebbe difficile - è stato spiegato - una corretta programmazione a medio termine dell’utilizzo dell’acqua. Ci sarebbe, inoltre, anche il rischio di un allontanamento anche dei tempi di esecuzione di altri lavori che l’ente irriguo ha già in cantiere ai quali è strettamente collegato l’allargamento dell’utilizzo delle acque dell’invaso sia a scopi irriguo che idropotabile per altre aree delle due regioni.È stato poi ribadito che la proprietà della diga «deve rimanere in capo al demanio statale», dal momento che riveste un’importanza sovraregionale, «serve 2 regioni e 3 province». Umbria e Toscana, dopo l’incidente del 29 dicembre scorso, chiedono poi un comitato di salvaguardia che indirizzi e controlli la gestione della diga di Montedoglio del quale facciano parte «sia le Regioni interessate che le Province e i Comuni». LORENZO CANALI
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