Storia di un ferragosto

La nebbia che respiro ormai
si dirada perché davanti a me
un sole quasi bianco sale ad Est
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Non era «quasi bianco». Era oro purissimo. Ma a parte quello, era tutto come nella canzone di Lucio. La luce, la nebbia, l’odore di funghi, i ricordi che la luce e la nebbia e l’odore evocavano. E dire che non era ottobre. Era la mattina di Ferragosto, pochi giorni fa.
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Ho dato appuntamento a mio fratello alle 5 e mezzo, per essere lassù entro le 6, per vedere l’alba. Erano le 5 e 50 quando siamo scesi dall’auto, a Bocca Trabaria. Il valico che da secoli collega la Toscana a Urbino. La strada che chissà quante volte ha fatto, a piedi o a cavallo, Piero della Francesca per andare dalla sua Sansepolcro al palazzo del Duca del Montefeltro. Attraversando gli orti di guado – fonte della polvere turchina che avrebbe usato per tingere i suoi cieli – e i paesaggi dalla profondità fiamminga che avrebbe messo di sfondo nei suoi quadri.
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Ci siamo incamminati sotto i faggi sul crinale – una cresta stretta dai fianchi scoscesi: da una parte le mie montagne digradanti verso l’Adriatico, dall’altra l’Umbria e la Toscana, le case di San Sepolcro e la salita dritta per Anghiari.
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E poi avanti, sui Monti della Luna – e la montagna conosciuta come Alpe della Luna, e la rupe conosciuta come Ripa della Luna –, verso il punto in cui puoi fare pipì e raggiungere tre fiumi: a destra il Metauro che sfocia a Fano e, un centimetro sopra, il Marecchia di Rimini; a sinistra il Tevere che arriva a Roma.
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Ed è un punto importante. Perché, per chissà quale antica disputa territoriale, qui il Granducato di Toscana travalica sul versante Adriatico. E i suoi cittadini vivono isolati dalla Madrepatria. Un tempo i balli di Carnevale erano animati dalla risse ebbre fra Toscani e Papalini.
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Mia madre si chiama Franceschi. È nata nel luglio del 1928 a Padonchia, frazione di Monterchi, città di Romana di Pierino, mamma di Piero, che in onore della madre aveva dipinto in una cappella del locale cimitero, a pochi chilometri dal Borgo Sansepolcro, la Madonna del Parto.
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Mia madre è figlia di secondo letto di sua madre Concetta Massi. Che aveva sposato Emilio Guadagni, gli aveva dato tre figli, finché lui era morto di influenza. La giovane vedova era stata accolta da Angelo Franceschi, che ci aveva fatto altri quattro figli – compresa mia madre – prima di morire, again, di influenza, quando mia madre aveva appena tre anni.
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Senza padre, di secondo letto, con sei fratelli, e femmina. Il suo adorato fratello maggiore Giovanni – Guadagni – aveva potuto studiare. Aveva studiato, con molti sacrifici, anche il suo fratellino Aldo – Franceschi. A lei l’università, che i suoi insegnanti auspicavano, era preclusa: secondo letto e soprattutto, a quei tempi, secondo sesso.
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Nel frattempo, la guerra ci aveva messo del suo. Aveva ucciso Francesco Franceschi, il primogenito della seconda nidiata, partigiano, impiccato dai tedeschi a 20 anni. E aveva imposto a lei di interrompere il suo corso di studi. Si era diplomata in ritardo alle Magistrali di Sansepolcro.
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Quando era entrata nella graduatoria del provveditorato di Arezzo, non era certo ai primi posti. E così si era trovata maestra di scuola serale a Castellacciola, frazione di Badia Tedalda. La più lontana e scomoda delle destinazioni. Da secoli la Badia appartiene alla Toscana, benché il suo fiume, il Marecchia, attraversi poi tutta la provincia di Rimini. Castellacciola aggiunge un di più di isolamento. Perché sta al di qua dello spartiacque tra Marecchia e Metauro, nella parte più alta della valle che, subito dopo, diventa Marche, e scende verso Fano.
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Oggi Castellacciola è un deserto di pietre smosse, all’epoca era un borgo di duecento e passa persone. Ma senza negozi. E siccome la Badia era oltre il valico, a diverse ore di cammino lungo una strada troppo sconnessa per affrontarla in bici o in Lambretta, di qualunque cosa avesse bisogno mia madre, doveva scendere due chilometri a valle, oltre il confine con le Marche, a Parchiule, ed entrare nella minuscola bottega della Gina. All’anagrafe Genoveffa Longhi, mia nonna, moglie di mio nonno Giuseppe Dini, madre del mio babbo Tommaso Dini.
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Anche il mio babbo, negli Anni Trenta, aveva studiato alle Magistrali a Sansepolcro. In un mondo che andava a piedi, e dove le distanze contavano più di ogni altra cosa, Urbino e il litorale erano troppo lontani, e poi non era neppure finita la strada per risalire, da laggiù, a Parchiule, che quindi continuava a gravitare, come nei secoli dei secoli, sulla vicina Toscana.
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Anche lui, dicevo, aveva studiato a Sansepolcro – anzi al Borgo, come la chiamavano (e la chiamano) i locali – ma diversi anni prima di mia madre. Non si erano mai incrociati, né forse si sarebbero mai incrociati se non fosse stato per una coincidenza di quelle inspiegabili. Il babbo aveva fatto metà della guerra con Giovanni Guadagni, il fratello maggiore – di cognome diverso, vicinissimo in tutto il resto – della mamma. Erano rimasti amici, e Giovanni aveva scritto a Tommaso per avvisarlo dell’arrivo della sorella.
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E un giorno del 1957, Assunta Franceschi aveva sposato Tommaso Dini, malconcio reduce della guerra e della prigionia, amicissimo di Giovanni Guadagni, e da quel matrimonio improbabile e al tempo stesso inevitabile erano nati quattro maschi. Io ero l’ultimo.
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Oggi sappiamo che i Guadagni di Padonchia discendono in realtà da una Franceschi. Che il nonno del nonno del nonno del nonno del nonno di mia madre, nel XV secolo, era Giovanni Franceschi di Casavecchia, nei castagneti sopra Anghiari. Che, come tutti i (pochi) Franceschi della zona, era probabile parente di Piero di Benedetto de’ Franceschi, cioè Piero della Francesca. Oggi sappiamo che anche i Dini vengono dalla Toscana. E che, per un’altra coincidenza, la maggior concentrazione di Franceschi coincide con la maggior concentrazione di Dini: in provincia di Lucca.
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Ma per me, casa è lassù. A cavallo tra un mondo e un altro. Sul crinale.

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